Nelle zone marginali delle grandi metropoli italiane, esiste una massa enorme di ‘rifugiati invisibili’, privati di ogni diritto, lasciati in preda delle delle informazioni distorte, delle ‘leggende metropolitane’ sui propri diritti e doveri. Sono i cosiddetti ‘rifugi informali’, che contano decine di abitazioni precarie, occupazioni, baraccopoli, quando sostenute da una comunità; fogli di cartone, pavimenti e portici di stazioni quando subentra l’impossibilità di comunicare e accedere ai servizi del territorio, la fuga, il disorientamento e l’indigenza.
Si tratta di realtà parallele al sistema di accoglienza, insufficiente per quantità e qualità; non-luoghi dove migliaia di richiedenti asilo e rifugiati vivono in locali dismessi occupati, in baracche, tende o all’aperto, dove è impossibile tracciare costruttivi percorsi di autonomia.
Sono le conseguenze dirette della mancanza non solo di circuiti di accoglienza, ma anche di politiche che escludono, che non lasciano spazio all’autodeterminazione e all’inserimento in una società. Politiche che non investono sulle persone ma le lasciano ai margini, vulnerabili e costantemente bisognose di assistenza.
Da Roma ci arriva la storia di Salomon, raccontata da Nicoletta Dentico, attivista del Forum per cambiare l’ordine delle cose, che ha raccolto le voci delle tante persone incontrate durante l’attività di volontariato svolta per diverso tempo insieme a Medici per i Diritti Umani all’interno di questi ‘rifugi informali’.
Salomon parla italiano senza problemi. Sta in fila per la consulenza legale.
Ha 23 anni e viene dallo stato dell’Ogun in Nigeria. Il Guardian Africa, che leggo mentre lui mi parla, dice che “violence is the second name of the Ogun State”, e mentre scorro le notizie sullo schermo del cellulare lui mi racconta che si trova in Italia da sette anni. Lo guardo con un senso di incomprensione, mentre faccio il calcolo degli anni, e lui capisce. “Io sono scappato dal mio villaggio nel 2007, avevo 12 anni, hanno ucciso i miei genitori e sono scappato con mio fratello più piccolo. Nel mio paese ne sono successe di tutti i colori nel 2007, noi siamo scappati ma ci siamo anche persi, e così da allora ho parlato con mio fratello solo quattro volte” e comincia a piangere, la parola si ferma, si prende la testa fra le mani.
“Sono stanco – mi dice con gli occhi lucidi – qui la vita è dura. Ho i documenti, ho il riconoscimento dell’asilo, ho fatto le scuole italiane quando sono arrivato qui. Certo ho fatto casino, molti errori, ma adesso voglio una vita normale”. E continua: “Oggi benedicendo Dio ho firmato il mio contratto di lavoro”.
Ha cominciato un tirocinio come aiuto cuoco in un ristorante a Piazza Bologna, un contratto di tre mesi. Ricominciare. Forse meglio dire “cominciare” un vita adulta in questo paese che lo ha accolto tanto tempo fa.
Ma Salomon ha bisogno di un luogo degno in cui vivere. C’è l’orrore, a Via Tiburtina.
Ex Penicillina, 11 settembre 2018