Approdi inSicurezza: report da Lampedusa

Lampedusa, isola d’approdo. Un punto d’arrivo per tanti, ma potrebbe esserlo per molti di più. Spesso però uomini, donne, bambini si trovano di fronte gli scogli: non quelli naturali di un’isola che guarda all’Africa con fratellanza geografica, quanto piuttosto quelli burocratici e amministrativi di una società che parla di sicurezza, e invece genera insicurezza: nelle vite delle persone, nella propaganda divisiva, nelle politiche escludenti. Il punto è da che prospettiva si guardano le cose

Lapedusa, o LampeDuza come dicono gli arabi: isola di confino prima,  terra di confine poi.

Un luogo con tanti primati. È l’isola più estesa dell’arcipelago delle Pelagie nel mar Mediterraneo, nonché il territorio italiano più a sud. Dista solo 113 km dalle coste tunisine, alle quali è più vicina rispetto a quelle siciliane, da cui la separano 205 km. Solo 120 metri è la profondità massima del braccio di mare tra Lampedusa e l’Africa.

Lampedusa un’isola al limite, e in tutto e per tutto un limite per tanti e tante.

Arrivo il 24 gennaio, a tarda notte. Sbarco dal mio aereo. Un attimo per fermarmi, capire come muovermi. Un tempo che non tutti possono prendersi.
Dopo pochi minuti dal mio arrivo, al porto sbarcano circa sessanta persone. Provengono dall’Africa subsahariana, scendono dalla nave e arrivano in banchina sotto l’occhio vigile dei funzionari dell’agenzia per il controllo delle frontiere Frontex, che non salva vite, tutt’altro: monitora i confini e i flussi, con i funzionari a fare da radar di verifica. Presenti durante le operazioni di sbarco ci sono i membri dello staff di Mediterranean Hope e i funzionari del Ministero della salute. Immancabile la presenza di militari e polizia, così come quella dei furgoni per il trasferimento diretto all’hotspot. Devastati dal viaggio, donne e uomini scendono in banchina. Non si intravedono bambini. Nel loro passaggio al pulmino che li porterà all’hotspot, solo il tempo di un cenno di saluto, ricambiato con fatica ma con la ferma dignità di chi ce l’ha fatta, e la speranza  di poter ricominciare. 

Tutto questo prende forma in un territorio arrabbiato e dimenticato, tra le luci dei fari che tracciano la via e i lampeggianti, garanti di gestione e contenimento fatti passare per presunta sicurezza. Lampedusa è martoriata dalla presenza di forze militari, e quest’anno si è aggiunto anche il virus.
L’isola è deserta. Bar, negozi, biblioteca, spazi per la cultura: chiusi, vuoti. Su via Roma solo pochi e desolati viandanti e tanti, tantissimi, troppi personaggi in divisa, di tutte le divise possibili e immaginabili. 

Prendere due calamite, un gesto semplice per non cadere nell’oblio dello sconforto, sembra diventare un’azione illecita: il desiderio è solo quello di portare con sé un po’ della bellezza di quest’isola che ha sempre vissuto la dinamica altalenante tra l’esser buona o cattiva, la volontà d’esser terra ferma, quasi come una rassegnazione, o di portare invece con dignità, forza, cultura e impulso il proprio carattere di isola. 

In tale cornice mi imbatto in amici, volti conosciuti da tempo, nuove relazioni, rinnovate interazioni. Quattro passi da condividere lungo il porto e quattro chiacchiere da scambiare per capire Lampedusa, la direzione che sta prendendo, anche all’interno di questa situazione pandemica che accomuna tutto il mondo, e che però si inserisce in una specificità legata agli sbarchi, che Lampedusa ha sempre saputo affrontare nonostante da un po’ di tempo tutto appaia sovradeterminato, e nell’isola si avverta la sensazione che qualcuno pensi che questo territorio non sia più capace di ‘fare per sé’. 

Provo a tracciare una guida, per poter mantenere un filo e non essere inghiottito dalla quotidianità e dalle sollecitudini che arrivano sempre e comunque dall’isola di Lampedusa. Nella mia settimana di permanenza incontro volontari, referenti di associazioni e coordinamenti, cittadini/e: persone che mi aiutano a capire, o almeno mi danno il loro punto di vista. 

Se alcune cose sono cambiate, altre rimangono uguali: è il caso della difficoltà di portare avanti i salvataggi, soprattutto in periodi come questo, in cui le condizioni meteorologiche sono decisamente problematiche con forti venti e mare particolarmente mosso. A questa situazione tragicamente conosciuta ora se ne associa un’altra, ossia la necessità di un periodo di isolamento per le persone soccorse. Fino a poco tempo fa sull’isola c’erano cinque navi predisposte per la quarantena. Ora ne stazionano solo due.

La necessità di un periodo di isolamento – che comunque stando alle informazioni sul campo sembra arrivare sempre dopo il primo passaggio nella struttura hotspot – non deve e non può mettere in secondo piano la tutela della dignità e dei diritti delle persone soccorse: lo ricordano i volontari di Mediterranean Hope, sottolineando l’importanza, a tal fine, di pianificare e organizzare con attenzione le operazioni di sbarco. Una necessità che a ben vedere è la stessa da anni. 

Intanto a Lampedusa si respira l’aria che in realtà circonda l’isola da tempo. E’ quella di un territorio militarizzato, dove è evidente la presenza di forze dell’ordine di ogni grado, fino all’esercito. L’impatto è con un’area ‘isolata’, non in quanto isola ma in quanto zona controllata – una situazione esacerbata dal Covid19 e dal correlato periodo di ‘zona rossa’ in cui ci troviamo. Da parte della cittadinanza si avverte un misto di rabbia e stanchezza, con poche e rare situazioni di resistenza sociale che, in questo periodo particolare, rilanciano l’importanza di mantenere vicinanza relazionale, culturale e politica, naturalmente con il necessario senso di responsabilità collettivo.
Nel quadro di desolazione fatto da strade vuote e bar chiusi rompe la monotonia il camminare continuo di cani lungo il corso e il corteo per il funerale di una persona importante per il territorio (ciao Pietro).

“La tensione è  strisciante”. A parlare è  Stefania, giovane donna sull’isola da circa sei mesi, che ringrazio per la disponibilità e collaborazione. Stefania ci spiega che “una parte della struttura dell’hotspot non può  essere utilizzata causa lavori in corso. Dopo una traversata disumana, si aggiungono i disagi del sovraffollamento”. Una situazione che porta con sé il timore che le cose “prima o poi possano sfuggire al controllo [..] In special modo se gli ospiti sono tunisini: secondo buona parte  dei lampedusani, portano rogne”. Il Covid? “Ha peggiorato le cose su tutti i fronti”. Le persone sono preoccupate dall’arrivo dei migranti, “visti come un potenziale veicolo per la trasmissione del  virus.  La stessa cosa è  valsa per i turisti della stagione 2020”. Con questi ultimi, però, “alla fine prevale il bisogno di lavorare”.
Anche Stefania è arrivata a Lampedusa per lavoro, lo scorso luglio. “Nonostante la stagione non sia  andata male, la questione economica rimane la  preoccupazione più  pressante dei lampedusani. Le restrizioni anti Covid stanno penalizzando fortemente alcuni commercianti”.   

Lo scorso luglio a Lampedusa è arrivata anche la Ministra dell’interno Lamorgese, per un incontro con il sindaco sul tema degli sbarchi. “<Ministra ci dice di avere pazienza e abbiamo tutta la pazienza del mondo,   ma  il sindaco ha bisogno di aiuto, non lo state sostenendo. Ci avete abbandonato>. Questo dicevano le persone in piazza. Forse rendendosi conto che il problema è a monte”. 

La pandemia comunque sembra aver cambiato alcune priorità. “C’è paura, cittadini e associazioni chiedono azioni di tutela, in particolare sollecitano un presidio ospedaliero e azioni di monitoraggio e screening per la verifica dello stato di salute dell’isola stessa”.
Richieste che arrivano anche da Askausa, realtà lampedusana che da anni si occupa di cultura e storia dell’isola e tutela ambientale, associando a questo la lotta politica per i diritti delle persone, tutte, dagli abitanti di Lampedusa alle persone che arrivano per un proprio progetto migratorio. Proprio in linea con questo Askausa ha più volte sollecitato la ristrutturazione dell’hotspot – pur mantenendo ferma la richiesta primaria della sua chiusura. Dall’incontro con Giacomo Sferlazzo, membro del collettivo, emerge l’immagine di un’isola che può essere luogo di sperimentazione e attivazione di buone pratiche per la tutela e la crescita di comunità, all’interno di scenari nazionali e internazionali che qui si palesano nella realtà concreta e quotidiana delle persone. Un’isola investita dall’immagine di luogo di approdo e soccorso, che però da tempo risente di questa cornice stretta e parziale: la popolazione di Lampedusa è stanca del fatto che la storia del luogo sia accantonata. Un’isola costretta ad aspettare con ansia l’arrivo della stagione turistica, senza che il resto – tradizioni, cultura – sia valorizzato. Proprio su questo insiste Askausa, attraverso il rilancio e la rivendicazione di aspetti più culturali e legati al territorio, ad esempio con iniziative musicali e teatrali, che si legano a lotte per i diritti della comunità, come l’istituzione di un Comitato per la Salute Pubblica, impegnato nel monitoraggio dei tanti radar e ripetitori presenti sull’isola, o della base di Ponente dell’Aereonautica Militare. Un percorso necessario fatto di azioni di sensibilizzazione e informazione, che promuova processi di responsabilizzazione.

Il racconto è di Emanuele Petrella, responsabile del progetto SAI (ex Sprar) Well(c)Home, della coop. Idea Prisma. Il report è stato redatto da lui con il supporto del Forum per cambiare l’ordine delle cose. Alla visita di monitoraggio a Lampedusa hanno collaborato le coop. IdeaPrisma82, Alternata Silos onlus, e il Forum del Terzo Settore. 

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