Di Michele Vannucchi, analista di Openpolis.
Con Openpolis ci occupiamo da anni di immigrazione e accoglienza, facendo data journalism sul fenomeno migratorio, in particolare attraverso Centri d’Italia, la prima piattaforma di monitoraggio indipendente sull’accoglienza in Italia.
Per quanto il tema della tavola rotonda di oggi, ovvero i flussi legali d’ingresso, non rientri direttamente tra i nostri oggetti di studio è sempre bene considerare come i diversi aspetti del fenomeno migratorio siano poi intimamente connessi, oltre a essere pervasi, come vedremo, da caratteristiche comuni.
Nel Dossier Idos del 2020, Maria Paola Nanni ha riassunto gli effetti quarantennali della politica di “gestione” dei flussi. Tale politica come sapete si basa sull’idea ormai da tempo smentita che domanda e offerta di lavoro possano incontrarsi fuori dal territorio nazionale, e che solo dopo questo incontro lo straniero possa farsi riconoscere un visto lavorativo rientrando nelle quote previste dagli annuali decreti flussi.
Nel denunciare i fallimenti di questo modello, Nanni stimava che in modo diretto e indiretto le procedure di emersione dall’irregolarità, le cosiddette sanatorie, abbiano riguardato una quota maggioritaria dei migranti che vivono oggi regolarmente in Italia. Molti di questi dunque hanno in qualche modo dovuto ricorrere a un’eccezione, e non al percorso previsto in via ordinaria dalle norme.
Questa incongruenza rappresenta non solo il punto di partenza dei problemi che affliggono il fenomeno migratorio in Italia. Ma anche un esempio lampante dell’approccio utilizzato dallo stato italiano in tutti i settori che riguardano l’immigrazione.
Sul piano teorico infatti viene proposto un modello pianificato che attraverso un monitoraggio attento alle necessità che evolvono nel tempo dovrebbe essere in grado di raggiungere un obiettivo prefissato.
Sul piano pratico, invece, si assiste a una completa rinuncia a ogni programmazione e a ogni ambizione che la prassi vada effettivamente incontro agli obiettivi teorici.
Le contraddizioni di un sistema Questa contraddizione emerge in maniera evidente anche in materia di accoglienza dei richiedenti asilo e dei titolari di asilo, un tema di cui ci occupiamo ormai da anni e su cui continuiamo a scontrarci nonostante le molte difficoltà.
La prima contraddizione è legata proprio al tema di questa tavola rotonda e riguarda il tema da cui siamo partiti. Ovvero il fatto che buona parte degli stranieri regolarmente residenti in Italia sia entrato in maniera irregolare nel paese, dovendo quindi probabilmente inoltrare richiesta di asilo e passare attraverso il percorso di accoglienza previsto per queste situazioni.
Dopo l’ingresso nel sistema di accoglienza coloro che si vedono riconosciuta la domanda di asilo proseguono fino al termine previsto, mentre gli altri sono destinati al rimpatrio, o con tutta probabilità all’irregolarità.
Qui infatti emerge un’altra delle grandi contraddizioni. La pretesa formale dello stato di espellere tutti coloro a cui sia negato il permesso di soggiorno infatti si scontra con il sostanziale fallimento della politica dei rimpatri. E questo al netto che si tratti di una politica possibile oltre che auspicabile. Ma anche per coloro che dopo mesi o anni ricevono effettivamente il permesso di soggiorno il percorso è tutt’altro che lineare. Come sapete il sistema previsto in via ordinaria dalla legge è quello dei centri a titolarità pubblica, ovvero i centri Sai. La legge prevede poi la possibilità per le prefetture di istituire centri di accoglienza straordinari (Cas) nel caso in cui non ci fossero sufficienti posti nel percorso ordinario. Sono questi ultimi tuttavia a rappresentare nella pratica l’ordinarietà dell’accoglienza assicurando una sistemazione a oltre il 70% degli ospiti.
Questa forse è la contraddizione più evidente del sistema di accoglienza, anche se non l’unica. Si pensi che addirittura, durante il periodo in cui è stato in vigore il decreto sicurezza, i Cas avevano perso ogni caratteristica anche formale di straordinarietà, diventando un passaggio obbligato per i richiedenti asilo, mantenendo però al contempo la definizione di centri di accoglienza straordinari, come se ad essere “straordinario” fosse il fenomeno migratorio e non la natura di quei centri. A causa di problemi noti e della mancanza di volontà politica, nel corso degli anni nessuno ha voluto porre rimedio alla situazione aumentando in maniera consistente i posti nel Sai in modo da renderlo a tutti gli effetti il sistema ordinario.
Grandi centri, modello ordinario Preso atto della situazione l’attenzione si è dunque concentrata sul sistema straordinario. Tuttavia in particolare fino al 2017, ma anche in seguito, le prassi seguite dalle diverse prefetture sparse sul territorio italiano sono state molto diverse tra loro. In alcuni territori più virtuosi si privilegiava l’accoglienza diffusa, indicata via via anche dallo stesso ministero dell’interno come il modello più efficace e meno impattante sulle comunità locali. Molti altri territori invece si sono orientati verso un modello basato sui grandi centri contenitore, con evidenti ricadute negative sia sui processi di accoglienza che nel rapporto con il territorio.
Successivamente le prassi sono state almeno parzialmente uniformate. Tuttavia, malgrado le dichiarazioni formali e i tentativi occasionali di avvicinare il sistema dei Cas al modello Sai, questo non è stato fatto, oppure è stato evidentemente osteggiato.
Se si considera che tra il 2017 e il 2021 il numero di presenze nel sistema di accoglienza è passato da oltre 180mila a meno di 100mila ci si rende facilmente conto come questa riduzione, indipendentemente dalle sue cause, abbia rappresentato un’opportunità di riformare il sistema. Viste le indicazioni fornite dallo stesso ministero quindi ci si sarebbe potuti aspettare un forte sostegno dei progetti di accoglienza diffusa (se non del modello Sai) e una contestuale progressiva chiusura dei grandi centri.
A fine 2018 invece il nuovo capitolato di appalto per i Cas, voluto dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini e redatto dal suo capo di gabinetto, l’attuale ministro dell’interno Matteo Piantedosi, è andato nella direzione opposta. Infatti, sono stati ridotti drasticamente gli importi giornalieri previsti per l’accoglienza dei migranti, con ovvie ricadute in termini servizi e capacità d’integrazione. Inoltre, come se non bastasse, la riduzione ha penalizzato principalmente i piccoli centri. Non a caso proprio in quegli anni è emerso il fenomeno dei bandi deserti. Ovvero di gare d’appalto per l’assegnazione dei servizi di accoglienza e integrazione a cui non si presentava nessuno a causa di importi che, per la categoria dei piccoli centri, non erano sufficienti a garantire un servizio dignitoso. Un problema che non è esploso diventando un’emergenza sociale solo a causa della riduzione complessiva delle presenze nei centri, oltre che alla disponibilità di alcune organizzazioni a farsi comunque carico dell’accoglienza, magari in centri di medie o grandi dimensioni.
Dati mancanti Molte altre contraddizioni segnano il fenomeno dell’accoglienza e più in generale dell’immigrazione in Italia. Concluderei però citandone una che ci riguarda da vicino perché si scontra, invece che incontrarsi, con il nostro modo di lavoro. Ovvero la raccolta, la gestione e la diffusione dei dati sul sistema di accoglienza. Stride in particolare il contrasto tra la pretesa di legalità grazie alla quale è oggi possibile privare della libertà personale un individuo chiudendolo in un CPR anche in assenza di un reato da un lato. E il disinteresse mostrato dallo stato di fronte a un altro obbligo di legge. Quello che impone, o imporrebbe, la pubblicazione della relazione annuale del ministero al parlamento sullo stato del sistema di accoglienza. Questa relazione, rappresenta l’unica fonte di informazione ufficiale sul sistema di accoglienza che abbia un livello minimo di dettaglio, per quanto comunque insufficiente per studi approfonditi.
L’ultima volta che è stata pubblicata però risale al 2020 riportando quindi dati relativi al 2019. Nonostante la legge imponga l’invio (e la successiva pubblicazione) dei dati entro il 30 giugno di ogni anno. Di fatto non viene rispettata la legge da due anni. Cosa è accaduto nel sistema di accoglienza nel frattempo non è dunque dato sapere, non solo all’opinione pubblica, ma neanche ai parlamentari. E questo nonostante in questi anni non siano mancati interventi normativi sul sistema che sono passati al vaglio del parlamento.
Anche per questo da anni, ogni anno, inoltriamo al ministero dell’interno varie richieste di accesso agli atti ottenendo, tra molte difficoltà, i dati necessari ad alimentare Centri d’Italia, ovvero l’unica piattaforma dove è possibile consultare e scaricare dati di dettaglio sul sistema di accoglienza italiano. Un lavoro reso possibile grazie a 24 tra richieste di accesso ai dati e ricorsi al tribunale. Un risultato tuttavia inferiore ai nostri auspici, visto che alcune informazioni continuano ad esserci negate.