Gaetano De Monte*
C’è un uomo in ginocchio, che prega. Si chiama Haris Yousufi, ha nazionalità afghana. «Sono arrivato dall’ Australia con il primo volo disponibile da Sidney. È la prima volta che vengo in Italia e sono partito appena ho ricevuto la chiamata da un parente che mi ha avvisato che c’era stato un naufragio della barca su cui era salito mio cugino, con tutta la sua famiglia», racconta Haris, mentre si alza e poi indica con il dito tre bare bianche, e un’altra marrone. Siamo all’interno della sala attrezzata a camera mortuaria del Palamilone di Crotone. «Mio cugino è tuttora disperso in mare, lì dentro invece ci sono i suoi tre figli e la moglie», aggiunge Haris.
Quando entro all’interno del palazzetto dello sport che ospita le salme delle donne e degli uomini, ma anche anche dei bambini, dei cadaveri delle persone che il mare, grazie ai soccorritori, sta restituendo, sono passati 13 giorni dalla scoperta del naufragio avvenuto sulla spiaggia di Steccato di Cutro il 26 febbraio. E 33 bare, 27 marroni e 6 bianche, sono ancora lì allineate, in attesa di trasferimento e di una degna sepoltura. «Ripartirò quando avranno ritrovato mio cugino e quando avranno dato una sistemazione a tutti i corpi», dice ancora l’uomo.
Nel frattempo, qui dentro, «l’odore della morte è divenuto insopportabile», riflette una delle operatrici che da diversi giorni, ormai, garantisce assistenza legale e mediazione linguistica e culturale ai sopravvissuti e ai famigliari delle vittime, in mancanza quasi assoluta di un intervento pubblico di questo tipo. L’assistenza è stata affidata agli enti locali, comune e prefettura, a funzionari spesso impreparati perché non conoscono le lingue, e ai volontari. Non c’è traccia, qui, dello Stato. È l’altra faccia delle responsabilità istituzionali nella tragedia di Cutro, dove i familiari delle vittime che arrivano in Calabria da tutto il mondo per il riconoscimento dei corpi vengono ospitati a loro spese dai volontari e dalle associazioni del terzo settore. «È la certezza che questo paese abbia delle colpe imperdonabili quando scopri entrando dentro il CARA di Crotone dove sono stati collocati i sopravvissuti, reclusi in due capannoni antistanti al centro, due magazzini. Un hotspot improvvisato con la metà dei letti che servirebbero, gli altri dormono sulle panche», ha denunciato nei giorni scorsi la ricercatrice Alessandra Sciurba, che ha visitato il centro governativo insieme al parlamentare Francesco Mari.
È l’11 marzo, il giorno in cui da tutta Italia arrivano decine di pullman per partecipare al corteo organizzato dalla rete 26 febbraio e a cui hanno aderito centinaia di realtà del mondo antirazzista italiano, laico e religioso. È un serpentone misto a rabbia, dolore e sofferenza quello che attraversa le vie della marina di Cutro per concludersi sulla spiaggia maledetta del naufragio poco dopo le 18.00. Quando una croce fatta dei resti del caicco su cui viaggiavano stipate le 76 persone vittime finora accertate, viene piantata simbolicamente a pochi passi dalla battigia, lì nei pressi del punto in cui il mare due domeniche fa ha restituito i primi corpi.
A portare sulle spalle la croce per tutto il tragitto del corteo, accompagnato dalle persone delle comunità locali delle province di Cosenza e Crotone che in questi giorni di più si sono mobilitate, c’è l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, divenuto simbolo internazionale di una regione che accoglie.
Comunità accoglienti «Ho assistito nella mia vita a tantissimi sbarchi in cui i pescatori e le associazioni della Calabria hanno offerto il proprio contributo, mobilitandosi. Ma i soccorsi non sono mai abbastanza, come peraltro dimostra proprio questa tragedia», dice Lucano, assediato da decine di cronisti. E quando anch’io gli domando dello stato dell’arte dell’accoglienza nella regione dopo la criminalizzazione dell’esperienza di Riace che lo ha portato a ricevere una condanna a 13 anni di reclusione, Lucano risponde così: «Riace ha fatto scuola, la sua esperienza non si è esaurita. Oggi accoglie ancora diverse persone di origine africana. Così come decine di borghi calabresi prendendo spunto da quel modello, forniscono una accoglienza dal volto umano, né restrittiva, né punitiva».
Durante il percorso del corteo incontro diversi sindaci ed assessori che hanno fatto tesoro di questa esperienza. Molti di loro amministrano comuni che hanno 1000 abitanti ed ospitano un centro Sai/ex Sprar. Alcuni di questi centri si trovano in provincia di Crotone, a San Nicola dell’Alto, per esempio, 721 abitanti, e la vice-sindaca, Tiziana Francesca Basta, che dice: «di fronte a questa tragedia non potevamo rimanere inermi e ci siamo mobilitati per aiutare come potevamo, sindaci di ogni colore politico». Poi, aggiunge: «non si può andare avanti così, occorre cambiare queste politiche. Nella tragedia, però, il dato positivo è che esiste una regione, la Calabria, che accoglie».
Parlano i migranti Quando il corteo raggiunge la spiaggia, a prendere parola pubblicamente sono i familiari delle vittime, introdotti dalla portavoce della rete 26 febbraio, Manuelita Scigliano, che afferma: «lasciamo a loro la parola perché siamo stanchi di vedere gente parlare di e per i migranti».
«Il governo talebano ci ha costretti a fuggire perché se non scappiamo siamo comunque morti», dicono alcuni di loro. Poi, un uomo di origine afghana, tra gli applausi dei presenti, dice: «ringrazio le persone comuni che in questi giorni sono venuti al palazzetto dello sport di Crotone per rendere omaggio alle vittime, ma lo stesso non potrò dire della vostra presidente del Consiglio che non ne ha avuto il coraggio».
Leil è uno dei sopravvissuti al naufragio, viene da Damasco, ha perso il suo fratellino di 6 anni in acqua, non è riuscito a salvarlo perchè il bambino è morto di ipotermia, e chiede di «non dimenticare coloro che sono ancora dispersi in mare, perché siano da esempio in futuro per salvare altre vite». Così, molti altri interventi al megafono dei familiari scandiscono una volontà: «da qui vogliamo ripartire al più presto, ma almeno con i corpi dei nostri cari. Chiediamo giustizia e verità», dicono.
«Questa lotta è appena cominciata», dice in chiusura degli interventi Yasmine Accardo, portavoce dell’associazione LasciateCIEntrare, che è qui a Crotone da 12 giorni. «Nei giorni scorsi 40 organizzazioni hanno presentato un esposto in procura per chiedere di accertare le responsabilità di questa strage», rivela.
È una denuncia forte di quanto accaduto il 26 febbraio in mare il testo che ora che è all’attenzione degli inquirenti. Nell’esposto, i legali hanno rilevato: «il naufragio è avvenuto in acque territoriali italiane e, fin dai primi avvistamenti, il caicco era già nella zona SAR di responsabilità italiana, radicando nelle relative autorità la competenza dell’intervento». E ancora, scrivono gli avvocati in 26 pagine circostanziate: «v’è fondata ragione di ritenere che il naufragio avvenuto al largo delle coste calabresi fosse evento prevedibile alla luce delle informazioni comunicate da Frontex ed evitabile, se solo la normativa nazionale ed internazionale in tema di soccorsi in mare fosse stata puntualmente applicata da parte delle autorità a ciò preposte».
- responsabile comunicazione Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose