Vogliamo commentare quanto sta accadendo sulle isole greche ripercorrendo il pensiero dello scrittore e docente Edward Said, con il quale possiamo descrivere la situazione attuale, segnata dalla presenza di ‘masse’ di persone costrette a una ‘non appartenenza’ e a un’eterna apolidia; rifugiati, profughi e migranti con alle spalle storie diverse, miserie diverse, riscatti diversi, considerati “masse”, quasi a rappresentare l’opposto, complementare e dialettico, di quella società degli individui di cui continua a parlare molta sociologia contemporanea.
Queste persone sono considerate un surplus, per il quale i campi di internamento non sono solo l’unico spazio disponibile, ma anche ciò che li definisce persone degne di essere internate e deportate. Campi che indicano fisicamente la crisi complessiva in cui si trova un sistema totalitario e totalizzante, dove in una eterna era di eccezionalità il concetto di diritto e di cittadinanza possono cadere.
In questo senso, i campi indicano il modo in cui nuove differenze di status, classe e nazionalità si articolano nella cornice della globale “deterritorializzazione” come in uno stato di eccezione dove tutto è tollerato. I campi di Lesbo, Samo, Kos e Leros sono un esempio di questo concetto, con un sovraffollamento che sfiora il 1000%, in una condizione di detenzione permanente e di esposizione a gravi condizioni sanitarie, con scarso accesso ai più basilari diritti.
Una realtà che non è mai stata né tollerabile né accettabile e che continua ad esistere dietro gli scudi armati della comunità europea.
Condividiamo l’articolo pubblicato su Il Manifesto a firma di Valerio Nicolosi, direttamente dal campo di Moria, a Lesbo, distrutto pochi giorni fa da un incendio (l’articolo originale è pubblicato qui).
Nel limbo dopo l’inferno.
Tra gli sfollati di Moria in attesa della nuova prigione.
L’estate nell’isola di Lesbo non lascia spazio a giornate più fresche e, sotto al sole e a temperature di 30°C, i 12.000 sfollati del campo di Moria continuano a vivere in strada mentre il governo greco continua a dichiarare che entro domenica tutte le persone saranno nel nuovo campo, già parzialmente costruito.
La realtà però è che solo poco più di 500 persone hanno lasciato gli accampamenti improvvisati in strada e hanno scelto volontariamente di andare nel nuovo campo che sorge su di un promontorio in riva al mare, dove le coste turche sono bene visibili, come se fosse un monito per i migranti: questo è il confine d’Europa e loro ci sono rimasti impantanati.
Percorrendo la litoranea che da Mytilene porta verso Nord, appena fuori la città si incontra un blocco stradale della polizia che sembra quasi ordinario, come se ci fossero dei lavori in corso e non più di 10.000 persone accampate lungo la strada dopo qualche centinaio di metri. Le autorità non consentono alla stampa di passare ma è possibile proseguire lungo la strada che porta davanti al vecchio campo, dove l’odore di bruciato e la cenere rendono spettrale un posto che fino a pochi giorni fa era infernale. La luce del tramonto rende per pochi minuti tutto meno brutto ma, non appena il sole scende dietro una montagna, la realtà torna ancor più tetra.
Un ragazzo afghano cammina tra quel che resta della sua tenda cercando qualcosa che possa essere salvato. «È orribile quel che è successo, vivevo qui fino a pochi giorni fa, ora ho preso un piccolo appartamento in città con degli amici, siamo stanchi di stare nei campi», racconta prima ancora di ricevere una domanda, come se fosse uno sfogo. Della sua vita nel campo non è rimasto nulla, vive con il sussidio da rifugiato ma cercare lavoro per lui è impossibile. «Vorrei andare in Francia o in Germania ma anche se ci riuscissi verrei mandato indietro», aggiunge mentre continua a camminare tra la cenere e l’odore di plastica bruciata. Lui è tra i pochi ad avere ricevuto l’asilo negli ultimi mesi. Infatti circa il 90% delle richieste fatte nelle isole greche sono state respinte con la palese volontà di lasciare le persone in un limbo giudiziario dove non è possibile respingerli ma non hanno il diritto a restare.
Lungo la strada che collega Moria al grande accampamento, ci sono decine di persone che camminano sul ciglio della strada, tutte hanno qualche busta in mano, altri invece ne trascinano di più pesanti. I primi sono riusciti a trovare qualcosa tra le macerie del campo, i secondi invece hanno fatto spesa in un market dove vendono cibo e bevande. Hanno perso tutto e nonostante ci siano delle organizzazioni che si stanno adoperando, è difficile sfamare tutti. «Non vogliamo tornare in quelle condizioni, i nostri figli hanno già sofferto troppo in quel campo. La notte dell’incendio ci siamo svegliati per i rumori di chi urlava e correva, abbiamo paura che posso succedere di nuovo», racconta Ahmed che con la sua famiglia ha deciso di restare sulle colline intorno a Moria.
Tra i profughi la paura più grande è quella di finire in un campo che assomiglia ad una prigione. «Ci hanno detto che se entriamo non possiamo uscire, dicono che sia per il Covid ma abbiamo paura che sia per sempre», aggiunge mentre con la moglie organizza una cena con poche cose fredde, visto che non hanno nemmeno un fornello per cucinare.
I positivi al Covid nel nuovo campo sono 17 a fronte degli oltre 500 tamponi fatti ma i negativi non possono comunque uscire, nemmeno per fare la spesa. All’ingresso i giornalisti vengono fermati ma è ben visibile il via vai di mezzi dell’esercito che portano rifornimenti e truppe per continuare a costruire altre tende.
La situazione dunque resta in stallo, mentre domani ad Atene arriverà Charles Michel, il presidente del Consiglio Europeo, e porterà con sé un messaggio che già è stato espresso da Bruxelles: l’Unione Europea è pronta a finanziare il nuovo campo, dando quindi pieno sostegno al governo greco. La “Fortezza Europa” è pronta a ricostruire uno dei suoi avamposti, forse il peggiore.