di Stefania Dall’Oglio*
Le disfunzionalità del sistema di ingresso per lavoro mediante le quote fissate dal meccanismo dei “decreti flussi”. [1]
Come noto, l’attuale sistema di ingresso dello straniero per motivi di lavoro subordinato è basato, in linea generale, sul sistema delle “quote” di ingresso fissate nei c.d. “decreti flussi”. La maggior parte degli ingressi deve avvenire con tale sistema, eccezion fatta per gli ingressi in casi particolari, che avvengono al di fuori del sistema delle quote.
La normativa in vigore (Testo Unico sull’Immigrazione così come modificato dalla Legge Bossi Fini) stabilisce che ogni tre anni il Governo dovrebbe approvare un documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione, da emanarsi con decreto del Presidente della Repubblica. Tale documento programmatico dovrebbe individuare anche i criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso in Italia per motivi di lavoro, sulla cui base, successivamente, il Presidente del Consiglio dovrebbe stabilire annualmente, con proprio decreto, le quote massime di stranieri da ammettere sul territorio dello Stato (per lavoro subordinato, anche stagionale, e per lavoro autonomo). Qualora se ne ravvisi l’opportunità, il Presidente del Consiglio potrebbe anche emanare ulteriori decreti durante l’anno, che dovrebbero comunque essere predisposti in base ai dati sull’effettiva richiesta di lavoro suddivisi per regioni e per bacini territoriali di utenza.
Ciò premesso, ormai da molti anni non viene adottato alcun documento programmatico triennale, visto che l’ultimo approvato risale al triennio 2004-2006.
Di fatto, il sistema si basa sui decreti flussi c.d. “transitori”, che il Presidente del Consiglio può emanare, appunto, in mancanza del citato documento programmatico triennale, determinando così, in autonomia, le quote di ingresso, anche al di fuori di ogni consultazione con il mondo datoriale e, dunque, potenzialmente senza alcun aggancio con il reale fabbisogno di manodopera del Paese. Oltretutto, per legge tutti i decreti flussi devono contenere delle quote riservate agli Stati con i quali l’Italia ha in corso accordi sulla regolamentazione dei flussi e sulle procedure di riammissione, nonché quote riservate all’ingresso di stranieri di origine italiana. Requisiti, questi ultimi, che contribuiscono a conferire rigidità al sistema e ad allontanarlo dal fabbisogno reale.
Il postulato irrealistico dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro da remoto e la “presa d’atto” del D.L. n. 73/2022.
Una volta emanato il decreto flussi per l’anno di riferimento, il sistema prevede che l’ingresso in Italia avvenga su richiesta nominativa da parte del datore di lavoro, previa offerta di un contratto di lavoro, o su chiamata numerica, attraverso l’iscrizione degli stranieri in apposite liste di lavoratori (liste speciali di collocamento) presso le rappresentanze diplomatiche italiane all’estero. Naturalmente, la quasi totalità delle domande è formulata dal datore di lavoro con richiesta nominativa, poiché il più delle volte il datore di lavoro ha già avuto, in modo irregolare, alle sue dipendenze il lavoratore straniero. Infatti, è ovvio e ragionevole che un datore di lavoro non sia interessato all’assunzione di un lavoratore che non conosce. Per tale motivo, sin dal 1998 (anno di entrata in vigore della Legge “Turco Napolitano” e del Testo unico sull’immigrazione) i decreti flussi hanno svolto, di fatto, la funzione di “sanatorie mascherate” di lavoratori stranieri già occupati in “nero” che all’apertura del decreto flussi rientravano nel loro Paese di origine per poi venire chiamati nominativamente dal datore di lavoro italiano presso il quale avevano già lavorato. A ciò si aggiunga che, anche dopo la legislazione emanata nel 1998, sono state realizzate diverse regolarizzazioni (“sanatorie”) per l’emersione del lavoro nero degli stranieri (l’ultima risale, appunto, al 2020).
Occorre, inoltre, ricordare che, a partire dal 2011, complice la crisi economica e la c.d. “primavera araba” che aveva causato un considerevole aumento di flussi via mare provenienti dai Paesi del Nord Africa, i decreti flussi hanno fissato quote irrisorie di ingressi per lavoro subordinato, quote peraltro agganciate al criterio del limite massimo delle quote stabilite nell’anno precedente, come prevedeva la norma poi opportunamente abrogata dalla legge di conversione del c.d. “Decreto Lamorgese”.
Ad aggravare la disfunzionalità del sistema appena descritto contribuiscono, inoltre, la farraginosità e la lunghezza della procedura di assunzione che, tra l’altro, incontra ulteriori ostacoli negli istituti del contratto di soggiorno introdotto dalla Legge Bossi Fini e dell’indisponibilità di lavoratori sul territorio italiano.
In breve, il contratto di soggiorno, da sottoscriversi da parte del lavoratore e del datore, deve contenere, oltre alle condizioni contrattuali, la garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio per il lavoratore (fin dal momento della presentazione della richiesta di nullaosta al lavoro) e l’impegno al pagamento delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel paese di provenienza. Il contratto di soggiorno consisterebbe, dunque, idealmente (o piuttosto ideologicamente) nello strumento idoneo a vincolare automaticamente il soggiorno sul territorio italiano all’esistenza di un contratto di lavoro. In realtà, tale automatismo non può operare, in quanto la perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno, come previsto dallo stesso Testo unico sull’immigrazione, in ottemperanza alle pertinenti disposizioni di diritto internazionale ratificate dall’Italia (v. Convenzione OIL n. 143/1975). Inoltre, la posizione dello straniero radicato in Italia, anche se privo di un contratto di lavoro regolare (o con in corso un rapporto di lavoro “in nero”) è tutelata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce all’articolo 8 la tutela del diritto alla vita privata e familiare, anche degli stranieri, ove nella vita privata rientra a pieno titolo l’esistenza di un rapporto di lavoro.
Per quanto riguarda l’istituto dell’indisponibilità, come introdotto da un decreto-legge del 2013, esso richiede che, per instaurare un rapporto di lavoro con uno straniero residente all’estero occorra una previa verifica, presso il centro per l’impiego competente, della indisponibilità di un lavoratore presente sul territorio nazionale. Insomma, paradossalmente da un lato la legge prevede la programmazione dei flussi di ingresso per lavoro e dall’altro impone il previo accertamento della indisponibilità di lavoratori sul territorio italiano, con il solo effetto di rendere più lunga e complessa la procedura di assunzione mediante il decreto flussi.
Tutto quanto sopra descritto, non si può che accogliere con favore le disposizioni del recente decreto-legge n. 73/2022, convertito nella legge n. 122/2022, che ha previsto semplificazioni importanti per i flussi d’ingresso per lavoro per le domande presentate nell’ambito del decreto flussi relativo all’anno 2021. In particolare, tra le novità introdotte, si prevede che, una volta ottenuto il nulla osta, il datore di lavoro possa assumere subito anche lavoratori già presenti in Italia, sebbene in condizione di irregolarità, alla data del 1° maggio 2022. Si tratta, a parere di chi scrive, di una prima, timida (in quanto limitata nel tempo) presa d’atto di quanto irrealistico sia il suddetto postulato dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro da remoto.
La necessità di una regolamentazione flessibile degli ingressi per lavoro: la reintroduzione dell’ingresso per ricerca lavoro.
Il sistema appena descritto rende evidente come la rigidità imposta dalla concezione riduttiva del fenomeno migratorio introdotta dalla legge Bossi Fini – che vede lo straniero come minaccia alla sicurezza o, nella migliore delle ipotesi, come “braccia lavoro” – sia destinata al fallimento, testimoniato dall’uso fittizio dei decreti flussi come sanatorie mascherate, dalle innumerevoli regolarizzazioni avvenute nel corso degli anni nonché dall’utilizzo distorto della richiesta di asilo, divenuta ormai il principale percorso praticabile dagli stranieri giunti irregolarmente in Italia per motivi essenzialmente economici.
Tuttavia, al fine di permettere una gestione più controllata e realistica dei flussi per lavoro, potrebbe essere reintrodotta la possibilità di fare ingresso in Italia per ricerca lavoro, così come prevedono due proposte di legge depositate durante la scorsa legislatura, una delle quali è quella promossa dalla campagna «Ero straniero» . Infatti, la Legge Turco Napolitano e il Testo unico sull’immigrazione, prima dell’intervenuta abrogazione ad opera della Legge Bossi Fini, prevedevano che lo straniero, coperto dalla garanzia prestata da un cittadino italiano o straniero (lo sponsor), potesse cercare lavoro in Italia per il periodo di un anno, entro i limiti della quota appositamente definita dal decreto di programmazione dei flussi. Per chi non avesse avuto legami in Italia, l’ammissione per ricerca lavoro avrebbe potuto avvenire tramite contingenti di lavoratori iscritti in liste di prenotazione, a seguito della prestazione di garanzia da parte di un ente (Regioni ed enti locali, per esempio) o di un’associazione professionale, sindacale o di volontariato. Infine, qualora il numero di sponsorizzazioni private o pubbliche non avesse esaurito la quota massima fissata dal decreto di programmazione dei flussi, avrebbero potuto fare ingresso in Italia, nell’ordine definito dalla lista di prenotazione, quei lavoratori che fossero in possesso di mezzi sufficienti per provvedere al proprio sostentamento.
Allo stato attuale, per le ragioni sopra evidenziate, la reintroduzione dell’ingresso per ricerca lavoro con il sistema dello sponsorsarebbe assolutamente auspicabile, al fine di arginare la produzione di irregolarità generata dalla normativa in vigore.
La necessità di dell’istituto di salvaguardia della regolarizzazione ad personam.
Nella disfunzionalità del sistema appena descritto, il c.d. “Decreto Lamorgese” e la sua legge di conversione hanno indubbiamente avuto il merito di introdurre alcune leve giuridiche idonee ad aprire spazi per una gestione dell’immigrazione e dell’asilo più ragionata e realistica. Tra queste, di fondamentale importanza è stata l’introduzione dell’istituto della protezione speciale “del questore”. Si tratta della possibilità per lo straniero di chiedere direttamente al questore un permesso di soggiorno per protezione speciale, di durata biennale rinnovabile, senza dover necessariamente presentare una domanda di protezione internazionale (ossia senza chiedere asilo). Tra i motivi che la legge prevede per il rilascio figura il rischio che lo straniero irregolare, in caso di allontanamento dal territorio italiano, veda violato il suo diritto alla vita privata e familiare, quale tutelato dall’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Attualmente la protezione speciale richiesta direttamente al questore (e da costui rilasciata, su parere positivo della competente Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale) rappresenta, sostanzialmente, l’unico strumento duttile che il nostro ordinamento prevede per una regolarizzazione ad personam, caso per caso, idonea ad abbracciare una vasta gamma di ipotesi (inclusa quella, a determinate condizioni, dell’esistenza di un rapporto di lavoro in nero), in osservanza delle convenzioni internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte
Conclusioni
Nonostante gli indubbi meriti che vanno attribuiti al “Decreto Lamorgese” e alla sua legge di conversione, occorre ammettere che essi non hanno avuto la forza di incidere in profondità sulla rigidità dell’impianto normativo appena descritto che ha portato, nei decenni scorsi, non solo a dover ricorrere a periodiche regolarizzazioni, ma altresì all’utilizzo improprio dei flussi di ingresso (alla stregua di regolarizzazioni di fatto), nonché ad un uso strumentale del diritto di asilo. Insomma, quella stessa rigidità, fortemente radicata su una concezione securitaria del fenomeno migratorio, ha prodotto e alimentato la presenza irregolare degli stranieri sul territorio, con tutte le conseguenze che essa comporta in termini di violazione dei diritti umani, di insicurezza e di ostacoli all’integrazione. La via maestra verso un efficace governo delle migrazioni non può, dunque, che consistere in interventi di sistema, che si avvalgano strumenti normativi flessibili e realistici.
[1] Le considerazioni espresse in questa sede non riguardano l’ingresso per lavoro stagionale, il quale presenta una disciplina specifica maggiormente flessibile e realistica rispetto al fabbisogno lavorativo del Paese, sebbene non esente da lacune e farraginosità.
- docente esperta di immigrazione e asilo, già professore a contratto in diritto dell’immigrazione presso la LUMSA.