Perché è necessario garantire la partecipazione e l’integrazione degli stranieri

Quando ho ricevuto la presentazione del convegno che si è tenuto il 9 novembre, sono rimasto da subito colpito. Da quanto tempo in un’iniziativa pubblica non si sentiva parlare di migrazione “regolare”! Scriveva il Forum che vi è la “necessità di capire come liberare flussi di migrazione regolare, progetti migratori, veri e propri flussi di energia capaci di ridurre la pressione e, allo stesso tempo, tutelare la dignità degli individui, aiutare le economie dei paesi di origine e collaborare a quelle dei paesi di destinazione”.

Perché, dunque, mi sono chiesto, ammettere che vi sia la necessità di “liberare flussi di migrazione regolare” quando appena un paio di settimane fa il centro studi Idos con il suo Dossier Immigrazione 2022 ci ha detto che in Italia esso conta oggi più di 5 milioni di persone, cui aggiungere le acquisizioni di cittadinanza e che sarebbero anche di più se permettessimo agli irregolari che lo vorrebbero di regolarizzarsi. Non solo. Business Europe, confederazione di rappresentanze datoriali europee, italiane comprese, scrive quanto “l’immigrazione economica”, altro modo di chiamare la migrazione regolare con i suoi progetti migratori, può contribuire a colmare le carenze di manodopera e di competenze che affliggono l’intero sistema europeo, tanto da essere considerata tra le risorse complementari allo sviluppo del mercato del lavoro.

Il fatto è che l’U.E., e quindi anche l’Italia, ha dal lontano 2004, con la nascita dell’Agenzia Frontex, dichiarato guerra ai migranti economici, trasformando la situazione di emergenza umanitaria nell’ambito del Mediterraneo in emergenza da affrontare con il “contrasto al crimine transfrontaliero”; e così i semplici migranti si trasformano in criminali da tenere lontano, ad ogni costo, manu militari, dai nostri confini. Dalla creazione di Frontex, in poi, l’emergenza transfrontaliera, prima nel solo Mediterraneo e poi anche nei confini europei dei Balcani, è diventata perenne e si è consolidato il rapporto sinergico tra emergenza e industria militare europea, in continua crescita.

Fa parte a mio parere di questa strategia bellica, della U.E. e quindi anche dell’Italia, anche la pretesa attenzione all’assistenza e all’accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo o protezione internazionale, cifra identitaria con la quale l’U.E., e quindi anche l’Italia, tende a distinguersi in positivo dal resto del mondo. Così ai rifugiati e ai richiedenti asilo o protezione internazionale è stato riconosciuto il diritto a entrare in Europa, che tuttavia date le situazioni di violenza e negazione dei diritti umani condotte proprio dalle autorità e dalle polizie europee e continuamente provate dagli organismi umanitari, non sembra corrispondere poi alle reali azioni. Nel quadro della strategia europea, e quindi italiana, il riconoscimento ai rifugiati e ai richiedenti asilo o protezione internazionale di questo sacrosanto diritto individuale fa pensare, nell’ottica del contrasto al crimine transfrontaliero, a uno strumento di esclusione e di legittimazione del conflitto verso coloro cui questo diritto viene negato e cioè i migranti economici e i terroristi, interrompendo con questo pretesto qualsiasi flusso di migrazione regolare, con le rare eccezioni, di opposta qualità e legittimità, dei filtri degli hotspot e dei corridoi umanitari.

Creazione dell’emergenza E così, da anni, il dibattito pubblico ha nascosto la migrazione regolare e non fa altro che affrontare le questioni degli sbarchi, della difesa delle frontiere, dell’esternalizzazione dei confini, tutte cose di per sé emergenziali, anche perché il risultato delle politiche europee non è quello di risolvere l’emergenza quanto, tutt’al più, quella di controllarla.

Nella narrazione italiana, ma non solo, delle migrazioni, quella economica regolare, che appunto il Forum vorrebbe liberare, è sparita a vantaggio degli altri tipi di problemi. E allora per tentare di capire come rispondere alle questioni poste dal Forum, viene da chiedersi perché in Italia, da sempre, ci limitiamo a trattare l’immigrazione solo come perenne emergenza, anche se i nostri 191.000 rifugiati e 53.000 richiedenti asilo finora accolti sono molti di meno di quelli accolti da Spagna, Regno Unito, Francia e soprattutto Germania.

Penso che la migliore risposta a questa domanda sia stata data da Luca Di Sciullo e dal prof. De Nardis durante la presentazione del Dossier Immigrazione del 2021, con la mirabile sintesi “immobilismo e coazione a ripetere”.

Cosa ci hanno svelato questi due studiosi: che la politica con cui l’Italia (ma anche l’Europa) ha affrontato l’immigrazione cosiddetta di massa, dalla fine degli anni ’80, non ha fatto altro che muoversi come un pendolo tra un’interpretazione dell’immigrazione immobile, sempre uguale, nonostante il mondo, l’Italia e l’immigrazione andavano via via cambiando. Modo di pensare sempre uguale che quindi non poteva che costringere a ripetere comportamenti, politici così come legislativi, sempre uguali.

Ecco, sottolineo l’espressione “modo di pensare” perché a mio parere è la chiave che può farci comprendere la situazione. Generalmente quando parliamo di atti pubblici viene automatico riferirci alle leggi, perchè, al di là degli esercizi dialettici dei politici, è la legislazione che incarna la politica. Ma se da una parte questo è vero, dall’altra non dobbiamo mai dimenticare che le nostre aspettative, le nostre proposizioni, i nostri comportamenti sono dettati dai modelli culturali che abbiamo introiettato e che legittimano a noi stessi i comportamenti che adottiamo e che chiariscono cosa è giusto e cosa non lo è.

Perciò io dico che il pendolo tra immobilismo e coazione a ripetere che è possibile intravedere nella motivazione politica e di conseguenza nelle norme, è “soltanto” un sintomo, il sintomo dell’immobilismo culturale e della volontà di confermare i modelli culturali verso l’immigrazione scelti come riferimento.

Mi occupo di immigrazione e integrazione ormai da trent’anni e i giovani come me ricorderanno che l’Italia ha scoperto improvvisamente di essere diventato un paese d’immigrazione sull’onda delle notizie di sfruttamento umano nelle campagne del meridione, delle file per i permessi di soggiorno a Milano, dell’incendio della Pantanella a Roma, che diedero la spinta alla legge Martelli del 1990, che fu seguita subito dopo dall’invasione, come era stata chiamata ricordava Luca Di Sciullo, degli albanesi a Bari e dalla crisi del sistema d’accoglienza dei flussi dei somali dal Corno d’Africa.

Improvvisamente quindi gli italiani si sono svegliati una mattina con la percezione di qualcosa che non andava nella presenza degli “stranieri”, di questi “altri” di cui a questo punto legittimamente potevano incominciare ad avere paura o quantomeno sospetto. Paura e rancore, così, sono state le prime chiavi di lettura collettive che hanno guidato il successivo approccio alla gestione del fenomeno dell’immigrazione. Mentalità l’ha chiamata Luca Di Sciullo, modello culturale di riferimento aggiungo io, che, con le ovvie differenze dovute alla cultura, all’istruzione, all’ideologia, è penetrato nel profondo di molti italiani, anche politici, amministratori, dirigenti della pubblica amministrazione, contribuendo a formare sottotraccia un partito trasversale non favorevole alla presenza degli immigrati e sospettoso rispetto alla possibile convivenza.

Non importa se gli immigrati siano vittime o carnefici, pensa il partito trasversale, l’effetto di essere qui è pericoloso per il mio modo di vivere e il mio stesso modo di pensare, è un’emergenza importante, da cui mi devo difendere subito (ricordiamo che da trent’anni la rappresentazione mediatica è concentrata nella cronaca nera e nell’ordine pubblico).

Paura dell’immigrazione, rancore immaginato verso gli immigrati, percezione dello stato di emergenza, ecco il modello culturale (italiani possibili vittime, immigrati possibili carnefici da cui tenersi separati) che si è andando diffondendo. Un gigantesco stereotipo che sta giustificando da molti anni un circuito perverso: da una parte, l’elaborazione di misure di gestione del fenomeno non basate su un’analisi di dati, su dati di fatto verificabili e misurabili ma basato su posizioni ideologiche che continuano a promettere di calmare le ansie con cui si fa vivere agli italiani la presenza della popolazione immigrata in Italia e, dall’altra, il disinteresse verso studi scientifici capaci di offrire senso a politiche efficaci essendo dirette a gestire la realtà, quella vera e cioè la trasformazione dell’Italia in società multietnica e multiculturale, in cui gli immigrati non sono separati ma coprotagonisti insieme agli italiani.

Questa è la retorica dell’emergenza ed ecco perché la coazione a ripeterla, per preservare la giustificazione a considerare in fondo gli immigrati “non come noi” e ad assegnare loro una posizione subordinata alle nostre esigenze.

Quali politiche “Assegnare loro una posizione subordinata alle nostre esigenze” è dunque l’approccio politico del partito trasversale della paura e del rancore, che deve garantire a sé stesso il controllo dell’inserimento degli immigrati all’interno della società italiana. Molto lontano dall’integrazione che, coloro che come noi non fanno parte del partito della paura e del rancore, vorremmo guidasse questo inserimento e ci domandiamo perché in Italia non è stato possibile mettere in piedi un significativo percorso d’integrazione dei nuovi cittadini che via via si sono aggiunti a noi? Che cosa in Italia non funzionato nella politica d’integrazione?

Il fatto vero è che noi all’integrazione non ci abbiamo mai pensato, abbiamo perfino trascurato di cercare una definizione scientifica condivisa di questo concetto (tant’è vero se ci fate caso ognuno la interpreta come gli è più comodo). Non è vero che in Italia la politica d’integrazione non ha funzionato, semplicemente non c’è mai stata.

Ci sono stati e continuano ad esserci esempi virtuosi, buone pratiche, soprattutto da parte della società civile ma una cultura dell’integrazione no e così, mancando un modello culturale di base per pensare e costruire il processo d’integrazione, non si è avuta neanche una politica dell’integrazione.

Sappiamo del pendolo tra immobilismo e coazione a ripetere ma anche così non è che in Italia non si sia fatto niente, non si sia investito nell’ambito dell’inserimento ma si è scelto, consapevolmente, di limitarsi all’inclusione sociale. È una vecchia storia che sentiamo da tempo nelle riflessioni in tema d’immigrazione: meglio l’integrazione o l’inclusione? “Certo, qualcuno risponde, l’integrazione è una cosa teorica mentre l’inclusione risolve problemi pratici” oppure, altri insistono, “l’integrazione non rispetta la cultura degli immigrati” oppure ancora, nella migliore delle ipotesi, “ma dai, sono la stessa cosa”.

Ad onor del vero l’insieme di problemi su cui stiamo ancora dibattendo dopo trent’anni intanto ci fa capire senza ombra di dubbio che no, non sono la stessa cosa. Il problema è che il disinteresse per approfondire lo studio di politiche efficaci, in modo da non mettere in discussione la necessità di trattare l’immigrazione come un’emergenza e da mantenere il ruolo subordinato degli immigrati, ha parallelamente prodotto il disinteresse a capire il processo d’integrazione.

Concediamoci un attimo di pazienza in modo da fare mente locale su questo tema. Come funziona strutturalmente il fenomeno migratorio? Vi è una popolazione che lascia il proprio contesto comunitario e attraverso un viaggio arriva nel territorio di un’altra comunità dove chiede di rimanere. Questo è il funzionamento, le modalità del funzionamento dipendono poi da tantissimi fattori, motivazioni all’emigrazione, condizioni del viaggio, influenze internazionali e via dicendo ma così funziona in nuce.

La società in cui i migranti chiedono di rimanere può reagire sostanzialmente in due modi: farli entrare o lasciarli fuori, aprire le frontiere o chiuderle oppure ammettere alcuni e respingere gli altri.

Comunque, indipendentemente dai motivi per i quali la società d’arrivo permette l’entrata, quando i migranti entrano e, diciamo così, diventano immigrati si trovano davanti un sistema sociale funzionante attraverso una convenzione di convivenza storicamente concordata tra i suoi cittadini.

Ora, la convenzione di convivenza che vige è stata pensata e costruita quando quegli immigrati non c’erano e quindi la società d’inserimento ha la necessità fisiologica di controllare che il loro inserimento nella convenzione non provochi squilibri al suo funzionamento e, nel caso, di provvedere all’adattamento della convenzione di convivenza (e non degli immigrati nuovi arrivati) alla nuova condizione della società, che è diventata multietnica e multiculturale.

Inclusione e integrazione Quindi con l’entrata degli immigrati la condizione della società d’inserimento cambia perché cambia la popolazione in numero e in caratteristiche e la ricerca del riequilibrio ha due alternative: l’inclusione e l’integrazione. Nella lingua italiana il termine “inclusione” significa inserire dentro, racchiudere, comprendere nuovi elementi all’interno di un sistema, che evidentemente già esiste e deve rimanere funzionante così com’è. Includere gli immigrati significa perciò permettere e facilitare l’accesso al sistema dei diritti e dei doveri come sono previsti nella nostra convenzione di convivenza.

Al contrario, nella lingua italiana il termine “integrazione” significa aggiungere uno o più elementi ad un sistema al fine di completarlo per farlo funzionare meglio. Integrare gli immigrati significa perciò condividere con loro la gestione del sistema, facendoli partecipare alla sua revisione finalizzata al mantenimento o all’acquisizione della coesione sociale.

L’inclusione è un atto unilaterale dell’Italia che decide se e come inserire nel proprio sistema sociale i nuovi arrivati nel modo che ritiene più giusto (e che perciò cambia a seconda di chi ha il potere sull’atto unilaterale), l’integrazione invece è una negoziazione condivisa tra l’Italia e i nuovi immigrati sul come gestire questa barca comune al fine di navigare meglio e che avviene attraverso la partecipazione attiva di tutti, compresi gli immigrati.

È evidente che i due processi si basano su modelli culturali differenti riguardo ai rapporti tra l’Italia e gli immigrati: nell’inclusione è considerato giusto un rapporto degli immigrati di subordinazione (inclusi quanto si vuole ma è pur sempre casa nostra); nell’integrazione la volontà di condividere l’adattamento del sistema fa considerare indispensabile la partecipazione alla sua gestione degli immigrati, in un rapporto necessariamente alla pari e senza discriminazioni.

Questo è il processo d’integrazione, che per essere corretto deve possedere alcune proprietà: biunivocità (coinvolgere tutte le parti interessate all’adattamento), reciprocità (l’adattamento è a carico di tutte le parti in gioco) e interdipendenza (le scelte degli uni incidono automaticamente su tutte le parti).

Se noi guardiamo le scelte politiche e istituzionali dalla legge Martelli in poi, dobbiamo riconoscere che il modello culturale di parità, necessario all’accettazione della condivisione della gestione del sistema e alla definizione di scelte politiche che realizzano la piena partecipazione, è stato del tutto tralasciato, concentrando gli sforzi nel rendere più umana e più sopportabile l’applicazione dei processi d’inclusione degli immigrati, vuoi appena entrati, vuoi stabilitisi qui da anni.

La domanda che ha senso farci a questo punto è: perché, mentre l’Italia iniziava la sua trasformazione in società multietnica e multiculturale, la cultura politica predominante ha scelto nei confronti dell’immigrazione un modello culturale di superiorità degli italiani e la conseguente politica d’inclusione subordinata della nuova popolazione immigrata, rendendo completamente vuoti e insignificanti tutte le pur timidissime sperimentazioni di partecipazione previste dalla legislazione?

Su questa domanda occorre riflettere tutti, perché l’essenziale è uscire fuori dal circolo perverso del modello culturale della paura e del rancore, imparando a legittimare quello dell’uguaglianza e della partecipazione. Solo così si può delegittimare l’abbaglio della perenne emergenza e sostenere la partecipazione biunivoca, reciproca e interdipendente che fa del concittadino immigrato “uno come noi”, alla pari e senza discriminazioni. In questa maniera si costruisce l’ambiente politico e sociale alla cittadinanza compartecipe dello sviluppo dell’intera comunità italiana.

Nella sua presentazione il Forum ha chiesto: “Come programmare e gestire i flussi migratori per lavoro e studio per poter garantire tutele e dignità a chi arriva in Italia e per andare incontro ai fabbisogni odierni del mercato del lavoro?”

Ammettiamolo, quello di garantire tutele e dignità a chi arriva in Italia e, in modo corrispondente, di soddisfare ai bisogni del mercato del lavoro non è un fatto tecnico di metodologia di programmazione e gestione dei flussi migratori, per cui basta cambiare metodo per risolvere il problema.

Sappiamo che cittadini italiani emigrati all’estero sono 5.800.000, di cui il 21% è giovane, tra i 18 e i 34 anni e il 79% è adulto e in età lavorativa. Nel movimento migratorio in uscita figurano anche alcune decine di migliaia di immigrati cui si sommano quei cittadini italiani con background migratorio che hanno ottenuto la cittadinanza ma non l’integrazione.

Chi segue i movimenti da e per l’Italia sa bene che ormai da diversi anni è ricominciata l’emigrazione degli italiani e non solo dei giovani talenti ma anche di altre fasce della popolazione soprattutto e nuovamente meridionali. Da questo punto di vista la novità è che anche gli immigrati, soprattutto quelli più giovani, stanno lasciando l’Italia (cosa che preoccupa molto le famiglie immigrate ormai inserite positivamente nei nostri territori). Perché queste persone emigrano? Ma per raggiungere quelle tipologie e quella qualità di lavoro che in Italia non trovano più o non hanno mai trovato.

Per gli italiani è evidente che questo allontanamento dai fabbisogni odierni del nostro mercato del lavoro non ha niente a che fare con la gestione dei flussi migratori. Per l’emigrazione immigrata dall’Italia (sia delle seconde che delle prime generazioni), invece, alle problematiche riscontrate dagli italiani si aggiunge la reazione alla percezione di subordinazione con la quale essi percepiscono di essere trattati e la chiara mancanza di strumenti di partecipazione, e quindi d’integrazione, che sono costretti a rilevare nel nostro paese (sia se si è in possesso della cittadinanza giuridica che se non lo si è).

La domanda cui rispondere non è cosa non ha funzionato nell’integrazione ma cosa non ha funzionato nella cultura politica italiana, per impedire che fossero attivati processi di partecipazione delle comunità immigrate alla vita della comunità nazionale cui, di fatto oltrechè di diritto, appartengono. Senza partecipazione non vi è integrazione e senza integrazione non ha senso provare a programmare e gestire la corrispondenza tra presenza immigrata ed esigenze del mondo del lavoro con tutela e dignità.

A questo punto della discussione è evidente che tutto gira intorno alla volontà politica e amministrativa della nostra classe dirigente di adottare finalmente il modello d’integrazione biunivoco, reciproco e interdipendente. È attraverso la previsione strutturale della partecipazione all’adattamento del Sistema Italia che si possono scoprire i veri fabbisogni del nostro possibile sviluppo economico e socioculturale e quindi spazi di lavoro e occupazione di qualità e non certo solo per gli immigrati.

Cambiare cultura Ma per fare questo il fattore da cambiare è la cultura politica della classe dirigente, quella che non si accontenta dei gesti pur encomiabili di solidarietà individuale e non ostacola per definizione i movimenti migratori ma li accompagna prevedendo come esito finale la corretta integrazione e prevedendo legislazioni che applicano i meccanismi di partecipazione, attirando così le risorse immigrate, invece che respingerle e offrendo al sistema produttivo le possibili soluzioni agli effettivi fabbisogni del mercato del lavoro.

Ma qui sta il vero problema, perché per innalzare fino a questo punto il livello di cultura politica occorre essere consapevoli che le proprie scelte dipendono dal modello culturale che abbiamo in testa e che quindi occorre che la classe dirigente metta in discussione il modello di superiorità con il quale pensa alla relazione tra noi e gli immigrati.

Il problema non è quindi politico, né giuridico e tantomeno sociale ma è culturale, perciò non basta cambiare qualche norma né aggiungere qui e là qualche legge per risolverlo, perché dopo un apparente effetto iniziale si ritorna alle posizioni di partenza, confermando l’immobilismo dell’approccio e la coazione a ripetere le scelte di sempre.

Non possiamo non essere d’accordo con il Forum secondo cui ci troviamo a che fare con “flussi di energia che non possono più essere trattenuti, ma dovranno circolare e inter scambiarsi e, nel mondo contemporaneo, essere prodotti e riprodotti costantemente, per non disperderli.”

Politica e istituzioni hanno da subito anche lo strumento adatto per far cambiare il paradigma alla cultura politica: la condivisione con la società civile della pratica della partecipazione, guidata da un modello culturale di parità biunivoco, reciproco e interdipendente. Perciò classe dirigente e società civile scendano insieme nei territori e mostriamo a tutti, italiani e immigrati, che abbiamo capito: siamo tutti nella stessa barca, che naviga nella trasformazione multietnica e multiculturale della società ed è interesse e responsabilità di tutti remare nella stessa direzione.

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