Sovraffollamento estremo, tre morti nell’ultimo anno e mezzo, e la situazione sociale e sanitaria che è al collasso. I richiedenti asilo ospiti del centro e la rete di solidarietà cittadina che li sostiene, chiedono un intervento urgente alla prefettura, ma anche al comune.
La protesta, il lungo corteo di qualche chilometro verso il centro della città, e poi l’incontro in prefettura. La miccia che ha fatto scattare la rivolta il 4 novembre scorso di centinaia di richiedenti asilo, a Bari, è stata la morte di un richiedente asilo di 33 anni che era stato ricoverato all’ospedale San Paolo dopo aver ingerito degli oggetti metallici, e che è poi deceduto per i danni causati all’intestino.
I soccorsi sono stati attivati tardi, l’uomo è stato portato in ospedale soltanto il giorno dopo il tentativo di suicidio – secondo le testimonianze di chi vive qui – tra i container all’interno dell’ex base dell’aeronautica militare di Bari Palese, dove esiste il centro per richiedenti asilo (Cara) che è tra i più affollati d’Italia, e che fa il paio con il Centro per i Rimpatri (Cpr) poco distante. Ma le ragioni di un estremo disagio sono più profonde perfino del fatto che l’uomo è la terza persona nell’ultimo anno e mezzo ad aver perso la vita in un posto concepito come luogo di prima accoglienza e dove può capitare, però, di sostare per mesi, da uomini e donne liberi, sì, ma sotto un cancello alto sei metri e la supervisione del filo spinato.
A raccontarci questo disagio, è un uomo della stessa nazionalità – guineana – di Boubakar (il richiedente asilo morto il 4 novembre), oggi diventato portavoce della protesta che ha trovato ascolto la settimana scorsa in prefettura, a Bari, quando una loro delegazione ha incontrato i funzionari. «Eravamo amici, lui viveva con sua moglie qui dentro, e come tutti noi era stanco di vivere in una vera e propria prigione», dice Djallo: «viviamo in oltre mille persone, mentre dovrebbero essercene, come prevede l’appalto, la metà; è come se vivessimo in prigione, dato che possiamo uscire soltanto in alcuni orari, cioè dalle 7 del mattino fino alle 20.30». Aggiunge: «molti di noi lavorano nelle campagne della zona, a Bitonto e Palo del Colle, ma per andare a lavorare sono costretti a scavalcare un cancello di sei metri, qualcuno, per farlo, si è anche fratturato un braccio. È una prigione», – prosegue – «questo prevede il regolamento del Cara, la stessa cosa accade per quelli che tornano dai lavori serali, sono costretti a scavalcare e rischiano di farsi del male seriamente».
Ci sono queste disposizioni assurde, c’è la rivendicazione di condizioni di vita umane, dal punto di vista della richiesta di un vitto migliore, e di un alloggio degno di questo nome, ma c’è anche la battaglia per il diritto alla residenza e alla carta d’identità, tra le richieste che il gruppo dei richiedenti asilo ospiti del Cara, sostenuti da una rete di solidarietà cittadina, hanno presentato nell’incontro che si è tenuto all’interno della prefettura di Bari la settimana scorsa.
«La situazione lì dentro è drammatica», ci conferma padre Giorgio Ghezzi, che dopo 13 anni tra Caserta e Castel Volturno, «oggi continuo il mio impegno al fianco dei fratelli migranti insieme ad una suora comboniana qui in Puglia», afferma: «per anni ho visitato il centro una volta a settimana, incontrando anche gli operatori, ma dal febbraio scorso, quando è cambiato il gestore, che è diventato lo stesso che gestisce il Cpr, ho scelto di non continuare il mio intervento sociale insieme a chi gestisce un luogo che non dovrebbe esistere. Così, per una questione di coscienza». Prosegue: «oggi mi limito ad entrare per un momento di preghiera la domenica mattina, ma non rinuncio a sostenere, anche all’esterno, i diritti e la dignità di queste persone, come ho fatto la scorsa settimana, quando sono stato al loro fianco nella protesta davanti alla prefettura, e come faccio quando seguo alcuni di loro nel loro percorso di inserimento sociale, sportivo e lavorativo». Ciò che dovrebbe spettare all’ente gestore del Cara che percepisce dei soldi per farlo, e allo Stato che invece preferisce chiudere i richiedenti asilo in una base militare lontano dalla città, invece che favorirne l’integrazione.
*Questo articolo fa parte della campagna Paradossi all’italiana, un progetto del Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose per far valere i diritti di migranti e richiedenti asilo, finanziato e sostenuto dalla Fondazione Migrantes.