Integrazione: una parola che generalmente viene concepita a senso unico. “Ti sei integrata proprio bene, non sembri nemmeno straniera!”, è una frase che può risuonare se si ha un background migratorio: a dirlo è Ermira Kola del Forum per cambiare l’ordine delle cose, proseguendo: “Ma dunque se ci si ‘integra’ si va a perdere qualcosa, piuttosto che ad aggiungere?”. Un quesito che denuncia come l’integrazione sia considerato un percorso unidirezionale, compiuto dal soggetto migrante verso la società di accoglienza. “E, più nel profondo, cosa significa integrazione, solo avere un lavoro?”, prosegue Kola. Domande che si inanellano durante l’incontro Integrazione e cittadinanza, il quinto seminario del ciclo “Diritto d’asilo, un percorso di umanità“, organizzato da Forum per cambiare l’ordine delle cose, rete Europasilo, Fondazione Migrantes ed Escapes-Laboratorio di studi critici sulle migrazioni forzate. “L’integrazione non è solo quella economica, non si lega solo ad avere un lavoro. Né è solo quella culturale. Esiste un livello importante ma ancora troppo marginale, ossia la presenza socio-politica delle persone di origine straniera all’intero del paese di accoglienza”: così Syed Hasnain, presidente della Rete UNIRE. L’associazione è nata nel novembre 2019 proprio con l’intento di incidere su aspetti politici, sociali, e anche decisionali. “Con gli anni abbiamo assistito all’aumento della demagogia, i migranti e i rifugiati sono stati indicati come soggetti di cui avere paura: loro, che scappano da violenze!”. E’ stato così messo in ombra il contributo fondamentale che le persone di origine straniera possono dare al paese, se messe nelle condizioni di farlo. I rifugiati in particolare, secondo Hasnain: “Fuggiamo dai nostri paesi spesso per motivazioni politiche, e vogliamo dare il nostro contributo nel paese di arrivo e nella sua vita politica, partecipando con un ruolo più attivo”. Un ruolo che non dev’essere limitato solo agli aspetti che vedono i rifugiati protagonisti, ma deve coinvolgere tutti gli ambiti della vita sociale. “La consultazione con le persone con background migratorio non deve essere occasionale, ma strutturata. Serve un’interlocuzione costante e organizzata con le comunità”. La presenza di migranti e rifugiati è fondamentale nei processi decisionali che li riguardano specificatamente: “Non solo perché ci coinvolgono direttamente, ma perché ne siamo esperti, avendo provato sulla nostra pelle gli esiti delle politiche, le problematiche delle procedure, gli effetti delle normative: quindi possiamo aiutare a capire cosa funziona e cosa deve essere cambiato”, evidenzia Hasnain. Ma al di là di questo, i soggetti migranti sono portatori di visioni altre, che possono aiutare a sciogliere i nodi presenti nella società. Infine, vivono sul territorio, insieme a tutti gli altri cittadine e cittadine: perché non dovrebbero avere un ruolo attivo? Perché sono relegati a una marginalità escludente? Domande che coinvolgono il concetto di cittadinanza, che non è solo un pezzo di carta né una situazione giuridica, quanto piuttosto la presenza attiva all’interno di una società, a cui poter dare il proprio contributo. E per una reale promozione della cittadinanza attiva, la politica deve stare in ascolto: cosa che non succede. “Le associazioni di cittadini stranieri non sono considerate dalle istituzioni, tanto locali quanto nazionali”, evidenzia Mamadou Gaye, vicepresidente della cooperativa Savera a Bolzano. In Italia da trent’anni, ha visto l’ascesa di molte associazioni attive sul territorio nella rivendicazione di diritti e protagonismo, ma anche il declino di questo processo creativo, che lui attribuisce in primis proprio alla mancanza di attenzione e riconoscimento da parte del mondo politico e conseguentemente di tutta la società. “Le realtà composte da migranti o rifugiati il più delle volte sono prese in considerazione solo per interviste o per fare ricerca, o in occasioni di eventi specifici e folklorici, come le feste dei popoli, quando potrebbero davvero apportare un notevole contributo. A tal fine vanno riconosciute e supportate, anche finanziariamente, oltre che con una generale attività di empowerment”. Gaye mette anche l’accento sui vari e diversi bisogni: “Chi vive in Italia da tanti anni ha necessità differenti rispetto ai migranti di recente immigrazione, o ai rifugiati. Occorre fare uno sforzo per cambiare la percezione pubblica delle persone riguardo l’immigrazione”. E’ proprio la percezione che la società ha dei soggetti migranti e rifugiati che li esclude automaticamente da molti ambiti: uno di questi è quello dell’istruzione. La presenza di migranti e rifugiati nei percorsi di istruzione superiore, per non parlare di università o master, è considerata un’eccezione, senza che questo abbia mai sollevato domande. Una delle poche istituzioni a porsele è stata l’Università di Pavia, che nel ha attivato il progetto ‘Diamo rifugio ai talenti’, attivando dei percorsi per studenti e studentesse titolari di protezione umanitaria. Ventidue le persone coinvolte: di queste, sette si sono laureate. “Non siamo abituati a pensare all’università come attore per l’inclusione e il riconoscimento pieno e attivo della cittadinanza. Questa mancanza di consapevolezza si palesa anche nell’impreparazione di docenti e personale a sostenere i percorsi di studenti e studentesse rifugiati/e, che hanno esigenze diverse rispetto agli altri dimostra. Invece, come tutti gli enti pubblici, può e deve avere un ruolo importante”. Un ruolo che va oltre il percorso di istruzione: “E’ importante sottolineare che le altre, che hanno scelto di interrompere il percorso universitario comprendendo di desiderare altro, sono rimaste a Pavia, trovando casa e lavoro grazie alla rete nata proprio in seno all’università”, evidenzia Emanuela Dal Zotto, ricercatrice dell’ateneo e parte di Escapes-Laboratorio di Studi Critici sulle Migrazioni Forzate, mettendo in luce l’importanza di una rete, di attivare percorsi che mettano in contatto le persone all’interno di una comunità.
Anche Regina Imoape Igimoh si sofferma sull’importanza della rete: il progetto di mentorship contro l’abbandono scolastico dei titolari di protezione, a cui lavora nella città di Torino, si occupa proprio di creare un sistema di supporto, utile sia per superare ostacoli burocratici, che per affrontare, non più soli, problemi di altra natura. Una rete che diventa fondamentale, per chi ha dovuto lasciare il proprio paese. “E’ molto importante sentirsi a casa, accolti, fare parte di una comunità” sottolinea Yogoub Kibeida, direttore esecutivo dell’Associazione Mosaico di Torino, ricordando anche la necessità di sostenere i ricongiungimenti familiari: “Non si può vivere tranquilli se i tuoi figli sono dall’altra parte del mondo e sai che non li rivedrai facilmente. Occorrono leggi che aiutino le persone a ricongiungersi con i propri cari, ma ad oggi le normative sono ostacolanti”.
Le questioni toccate nell’incontro non riguardano solo le persone migranti, bensì l’intera società: dalla politica, ai servizi pubblici, al sistema di accoglienza, spesso schiacciato su processi escludenti piuttosto che sull’attenzione alla persona. Accantonare una politica e un discorso pubblico escludente (e che mistifica la realtà), per scegliere finalmente di evolversi, è un passo da fare quanto prima –è già tardi – per iniziare un percorso di rinnovamento. Che deve e può essere solo comune e comunitario.