Dopo le violenze, la cattiva accoglienza: il report di Medu sul disturbo da stress post-traumatico nei rifugiati e richiedenti asilo africani

Ad oggi, gli interventi di salute mentale per rifugiati e richiedenti asilo si sono sempre concentrati sui traumi subiti nei paesi di origine o lungo la rotta migratoria, tralasciando le condizioni di accoglienza post-migratorie. Le grandi strutture di accoglienza sono però “luoghi ri-traumatizzanti” con effetti deleteri sulla salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati. Lo sottolinea uno studio dei medici di Medu appena pubblicata sull’International Journal of Social Psychiatry.
“Condizioni di vita precarie in grandi e sovraffollati centri di accoglienza producono effetti negativi sulla salute mentale dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al pari delle violenze subite nei paesi di origine o lungo la rotta migratoria”. È questo il dato su cui si sofferma Medici per i Diritti Umani (MEDU) con la ricerca ‘Modelli e indicatori del PTSD (disturbo da stress post-traumatico) nei rifugiati e richiedenti asilo africani’, pubblicata sull’International Journal of Social Psychiatry.

Uno studio con cui l’organizzazione analizza le caratteristiche del disturbo da stress post-traumatico attraverso un’indagine condotta su un gruppo di richiedenti asilo e rifugiati africani, rivoltisi ai centri clinici di MEDU per situazioni di disagio psichico conseguenti a traumi subiti nel paese di origine o lungo la rotta migratoria. Il risultato è preoccupante: i grandi centri di accoglienza, sovraffollati e isolati, impattano negativamente sulla vita di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Un dato che chiunque sia entrato in una struttura del genere, o abbia parlato con qualcuno che ci ha vissuto, riconosce con chiarezza: il lavoro di Medu arriva per la prima volta a dimostrarlo in modo scientifico, ed evidenzia gli impatti negativi di uno specifico modello di accoglienza sulla salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati.

Un’analisi necessaria quella di Medu, a fronte degli scarsissimi studi relativi ai sintomi del disturbo da stress post-traumatico in migranti e richiedenti asilo, popolazione particolarmente colpita dal PTSD a causa di molteplici motivi, tra cui ripetuti eventi traumatici nei paesi di origine e lungo le rotte migratorie, ma anche fattori di stress presenti nella fase post-migratoria all’interno dei paesi di accoglienza.

L’indagine condotta da Medu ha coinvolto un campione di centoventidue rifugiati e richiedenti asilo africani, residenti in Italia da meno di un anno e ospitati in centri di accoglienza: l’80% in centri medio piccoli con meno di mille ospiti, il 4% in piccole strutture di accoglienza, il 16% in strutture di grandi dimensioni (con oltre mille persone), ossia il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA) di Mineo, in Sicilia, aperto nel 2011 dal governo Berlusconi. Una struttura che secondo Medu è caratterizzata da un alto numero di fattori di stress quotidiano rispetto ai centri medio-piccoli: sovraffollamento (la struttura è arrivata ad ospitare 4 mila persone a fronte di 2 mila posti disponibili), isolamento geografico e sociale, lunga permanenza in attesa del completamento delle procedure per il rilascio del permesso di soggiorno (18 mesi in media), difficoltà di accesso al Sistema Sanitario Nazionale, al supporto psicosociale e a quello legale, episodi di degrado sociale e violenza. Tali caratteristiche – le stesse che diversi studi identificano come fattori post-migratori predittivi della sintomatologia PTSD nei rifugiati – vanno a generare paura e insicurezza in persone che presentano già background traumatici.

Grandi centri di accoglienza: un modello ri-traumatizzante da abbandonare

L’esito della ricerca è chiaro: le grandi strutture di accoglienza sono “luoghi ri-traumatizzanti” con effetti deleteri sulla salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati. È su questo risultato che l’organizzazione pone particolare attenzione, anche a fronte della persistente diffusione di un modello di ‘accoglienza’ – se di accoglienza si può parlare – che predilige centri enormi e sovraffollati. Il campo di Moria sull’isola di Lesbo in Grecia, recentemente distrutto da un incendio, ne è un esempio: costruito nel 2015 dall’Unione europea nell’ambito dell’Agenda europea sulle migrazioni, era pensato come una struttura di permanenza momentanea per le persone in arrivo dalla Turchia che, dopo essere state identificate, sarebbero state trasferite in altri paesi dell’UE. Un piano lontano dalla realtà poi implementata: il programma di reinsediamento non è mai stato applicato in modo sistematico né efficace, e i tempi di permanenza si sono allungati a dismisura. Al momento del rogo, in uno spazio pensato per 3 mila persone – un numero già altissimo – vivevano in condizioni indegne circa 13 mila persone. Ora che l’hotspot è stato distrutto è già in programma la creazione di un nuovo centro, dalle stesse enormi dimensioni. Un approccio seguito anche dal nuovo patto europeo su immigrazione e asilo presentato pochi giorni fa dalla Commissione europea, che abbracciando ancora una volta il sistema hotspot “rischia di alimentare il modello dei grandi centri alle frontiere esterne dell’Unione europea”, denuncia Medu.

La salute pubblica come prospettiva da adottare per l’intera collettività

Ad oggi, gli interventi di salute mentale per rifugiati e richiedenti asilo si sono sempre concentrati sui traumi subiti nei paesi di origine o lungo la rotta migratoria, tralasciando le condizioni di accoglienza post-migratorie. Continuare a ignorarle può portare solo ad azioni parziali, se non addirittura a vanificare quanto messo in campo: difficilmente una persona che vive in condizioni critiche può trovare la forza e la costanza di impegnarsi in un percorso di cura del disturbo post traumatico da stress. È per questo che Medu sottolinea “l’importanza per i paesi ospitanti di implementare modelli di prima accoglienza che forniscano protezione efficace, integrazione concreta, alloggi e servizi adeguati”, andando oltre gli obiettivi a breve termine che caratterizzano generalmente la gestione dell’immigrazione, per abbracciare una prospettiva globale di salute pubblica.
Le conseguenze di una mancata presa in carico in tal senso sono evidenti nella società italiana e europea: “I quadri post-traumatici e le sindromi depressive ad essi spesso associate rappresentano un ostacolo al processo di integrazione dei migranti forzati alimentando un circolo vizioso in cui il disturbo post-traumatico favorisce l’isolamento dell’individuo che a sua volta amplifica il disagio psichico”.

Il persistere di un modello fallimentare basato su grandi centri escludenti e spersonalizzanti non produce dunque ‘solo’ un danno per le persone che in queste strutture ci vivono – cosa grave già di per sé – ma  rappresenta anche una “scelta miope da un punto di vista meramente utilitaristico in quanto le conseguenze producono nel medio e lungo termine gravosi costi economici e sociali per l’intera collettività”.

È sulla base di tali osservazioni che l’organizzazione esorta la politica europea e italiana; guardando in particolare a quest’ultima e agli emendamenti ai due decreti sicurezza previsti nelle prossime settimane, Medu sollecita una necessaria revisione del sistema di accoglienza, che faccia tesoro delle esperienze fallimentari del recente passato per promuovere “un sistema di accoglienza basato su realtà di piccole dimensioni, dotate di servizi adeguati ed integrate nel territorio, in grado di favorire una reale inclusione per il beneficio delle persone accolte e di tutta la comunità nazionale”. Per il bene di tutti.

L’articolo di Serena Chiodo è stato pubblicato su openmigration.org

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